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Gli anni a Palermo, il lavoro di fotoreporter, l'incontro con Falcone, l'esperienza al quotidiano L'Ora, la nascita del Centro della Fotografia: i ricordi di Letizia Battaglia in questa intervista inedita del 2015 realizzata da Luigi Bramato e Leonardo Palmisano sulle frequenze di Radio Sound City Network e pubblicata in formato digitale nel libro Letizia Battaglia. Quella che segue è un'anteprima:
Scorrendo le sue fotografie, si ha come l’impressione di trovarsi di fronte a un’opera d’arte. La luce, la profondità, la composizione: tutto è perfetto, tutto è così reale. Perfino la povertà, il sangue e le lacrime diventano attori di una tragedia, giunta al suo epilogo. Dove ho già visto tutto questo?
Probabilmente in qualche vecchio quadro o in qualche buona lettura. Io credo nell’abitudine al bello, è un allenamento importantissimo per fare qualcosa di buono. E questa abitudine io l’ho acquisita negli anni, visitando musei, leggendo libri, viaggiando per il mondo e confrontandomi con tanta gente meravigliosa. E le mie fotografie riflettono per immagini tutte le parole, le sensazioni, i paese e i dipinti che hanno nutrito per anni la mia fantasia. Non potrebbe essere diversamente.
Qual è il quid di una fotografia?
Il fotografo, senza dubbio. Fotografare vuol dire raccontare di noi stessi attraverso quello che vediamo. Quando io e Franco Zecchin tornavamo a casa dopo una giornata di lavoro, osservavamo i negativi delle nostre foto e ci accorgevamo che erano diversissime fra loro. Eppure le nostre macchine erano vicine quando riprendevamo lo stesso cadavere, lo stesso quartiere. Questo che cosa vuol dire? Vuol dire che nelle fotografie ci siamo anche noi ed è questo ciò che le caratterizza e le differenzia. Se io fotografo una bambina devo farle sentire se sono solidale con i suoi sogni, ci deve essere una parte di me in quella foto. E questo al di là della bellezza e dell’estetica. Se fotografo una bella ragazza, non dirò mai che quella è una bella foto, dirò che quella è una bella ragazza. La fotografia ha qualcosa in più. E quel qualcosa siamo noi. Sì, quel quid, per ritornare alla domanda, è il fotografo.
Quanto talento c’è nella società dell’immagine?
Difficile rispondere a questa domanda. La fotografia contemporanea, la fotografia digitale per intenderci, è molo affascinante, perché sprigiona una creatività nuova. Ma questa creatività emerge solo se hai talento, se hai un progetto interiore da difendere. Altrimenti tutto diventa una sciocchezza, tutto diventa un selfie. Dove sono finiti quei bei reportage, dove sono finite quelle belle fotografie che raccontano la realtà? Nessuno lo sa. Al contrario, c’è un’esplosione di mediocrità che calpesta e violenta le buone immagini. E in questo i giornali hanno la loro colpa.
Per quale motivo?
I giornali non hanno mai avuto la cultura della fotografia. Non l’hanno mai voluto identificare come un linguaggio potentissimo, capace di raccontare la realtà e consegnare questa alla storia. Come è avvenuto, per esempio, per la foto di Mattarella. Quella immagine parla da sola. Dentro c’è tutto: la mafia, l’impotenza dei giudici, la collusione della politica. E Palermo, naturalmente. Come se fosse un racconto, o un articolo. O, per l’appunto, un linguaggio. Ma per comprendere questo ci vuole una certa cultura ed è fatto noto che questa materia è piuttosto rara fra i giornalisti e i direttori di giornale. Se così non fosse, non vedremmo sui giornali quelle fotine orribili, scattate in fretta e furia dai cellulari, impaginate male e valutate ancora peggio. E un modo di lavorare così mediocre e supercifiale... proprio non lo so dove andremo a finire. Vendere a ogni costo, ecco il mantra che ha stregato i giornali: vendere, vendere e ancora vendere. A ogni costo e con qualunque mezzo.
E i fotografi cosa potrebbero fare?
Scioperare. Provassero a non consegnare più alcuna fotografia e vediamo cosa succede. Cosa pubblicano i giornali? I selfie, gli autoscatti? Peggio per loro. Se vogliono una buona fotografia devono pagarla. Punto. E se non la pagano? Allora i fotografi rompessero ogni collaborazione e creassero dei giornali nuovi, pieni zeppi di belle fotografie che raccontano la realtà autentica delle cose. Come ho fatto io: sono venti, forse venticinque anni che non realizzo più una fotografia su commissione. Eppure sono una professionista pluripremiata e forse proprio per questo non mi chiamano più: perché sono brava. Ma io ce l’ho fatta. Sono i giovani che mi preoccupano.
E cosa vorresti dire a loro?
Non rassegnatevi, mai. Non perdete la speranza, abbiate fiducia nel vostro lavoro. Cercate sempre la verità e la giustizia, abituatevi al bello. Anche a costo di sacrifici, perché il sacrificio è fondamentale. Ti addestra alla vita.
La misteriosa scomparsa di Ettore Majorana nel celebre racconto di
Leonardo Sciascia del 1975 che Luigi Bramato ricostruisce attraverso le
testimonianze dell’Autore e alla luce degli scritti di C. Ambroise, A.
Zichichi, E. Recami, L. Segrè, M. Sorgi, G. Mughini, C. Magris, P. Squillacioti
e S. Gambino (Il giallo di Sciascia. Il caso Majorana sulla
stampa).
Sul caso Majorana è stato scritto e detto moltissimo: cosa aggiungono le testimonianze da lei raccolte?
Quando
uscì a puntate sulla Stampa, il
romanzo di Sciascia fece molto rumore: la soluzione letteraria che il maestro
di Racalmuto dava del “giallo Majorana” suscitò un acceso dibattito, dai toni
anche polemici, che coinvolse rappresentanti della cultura scientifica e
umanistica italiani: spulciando negli archivi e tra i documenti custoditi nelle
biblioteche di Roma, Bari e Palermo, ho provato a raccogliere questi scritti e
pubblicarli integralmente con l’aggiunta di alcune note: ne è venuto fuori un
piccolo dossier, come lo ha definito
Gianfranco Dioguardi, che mi auguro possa risultare di un qualche interesse.
Che intende per “soluzione letteraria” del giallo?
Nel ricostruire
le ore e i giorni precedenti la scomparsa, lo scrittore-detective Sciascia mette
in relazione i dati della biografia di Majorana e consegna ai lettori una
soluzione della vicenda che si muove “tra storia e finzione”: negli studi scientifici e nelle riflessioni di carattere filosofico che andava formulando, è plausibile,
afferma Sciascia, che il fisico catanese, “un genio
pari a Newton e Galilei” dirà di lui Enrico Fermi, abbia intravisto la forza distruttrice dell’energia atomica;
e ne sia rimasto a tal punto “spaventato” da inscenare il proprio suicidio e rifugiarsi
in un convento del Mezzogiorno dove “dimenticare, dimenticarsi, essere
dimenticato”, generando così il mito dello scienziato che nega e si nega alla
scienza.
Cosa non convinse gli scienziati italiani?
La
possibilità che Majorana avesse effettivamente “visto” per primo l’atomica: una
tesi a loro giudizio inverosimile, ma che Sciascia avalla invece come
possibilissima sulla base delle testimonianze e dei documenti raccolti e di una
attenta e lucidissima analisi dei fattori psicologici alla base delle azioni e dei
pensieri del fisico siciliano.
Come giudica l’atteggiamento degli scienziati?
Non sono in grado di rispondere a questa domanda. Condivido però il giudizio che ne dà Claudio Magris: “La scienza non può ammettere che si ponga in dubbio il senso della sua attività e delle sue scoperte. Se ad avanzare queste domande eretiche è una persona qualsiasi, magari un grande scrittore ma digiuno di scienza, lo si ignora; ma se a dubitare del cammino della scienza è un grandissimo scienziato, non lo si può compatire né ignorare. Tuttavia, occorre neutralizzarlo e allora si dice che è un po’, o tutto, matto oppure che è affetto da crisi mistiche e religiose, il che secondo la mentalità di alcuni gretti scientisti è la stessa cosa”.
Lei parla di questo romanzo come di una “indagine” e del suo autore come di un “detective”: è corretto, a questo punto, parlare di Sciascia come uno dei maestri del giallo italiano?
Senza
dubbio è stato uno degli esponenti più illustri e sofisticati. Quando la
lettura dei libri polizieschi era considerata tra gli uomini di cultura
italiana un “ingaglioffamento” nella sottoletteratura, Leonardo Sciascia
esplorava con spregiudicatezza e intelligenza i “racconti del ragionamento” di
autori come Edgar Alla Poe, George Simenon, Arthur Conan Doyle, Graham Green,
scorgendovi le tracce di una letteratura autentica e raffinatissima, capace di
stimolare e impegnare i riflessi intellettivi del lettore. Come ha scritto
Claude Ambroise, anche se non tutti i libri di Sciascia sono dei gialli, quella
forma narrativa costituisce nell’opera del romanziere siciliano “il luogo
geometrico dei vari temi, l’asse portante dei singoli motivi” per mezzo della
quale Sciascia, da buon investigatore del “giallo della società”, costruisce e
dipana le vicende investigative dei suoi più celebri romanzi, incluso quello su
Majorana.
Il “giallo” non è soltanto un genere letterario, ma direi anche e soprattutto una tecnica narrativa: anche Sciascia, come Maigret, aveva un suo "metodo"?
In un'intervista raccolta da Walter Mauro nel
1980, contenuta per intero all’intero di questo mio volumetto, Sciascia scrive:
“Le cose che scrivo partono sempre da un’idea e si svolgono in uno schema.
Voglio dimostrare qualcosa servendomi della rappresentazione di un fatto
trovato nella storia e nella cronaca. Nel momento in cui, dopo lunga preparazione
e riflessione, comincio a scrivere, l’esemplo,
il fatto, mi prende completamente ed è come materia fusa che viene allo stampo.
La mia è una materia saggistica che assume i ‘modi’ del racconto, si fa
racconto”. Nel panorama meta-letterario italiano, il metodo di scrittura di Sciascia,
basato sulla ricerca documentale svolta con precisione chirurgica, sulla
capacità di leggere le carte con competenza giuridica, sull’attenzione
periziale alla connessione delle cose e delle frasi di atti relativi, rappresenta un unicum che “proprio nelle somiglianze, nelle curiose coincidenze e nelle
inquietanti fatalità" scrive Antonio Capitano, "trova il fondamento della propria azione investigativa”.
Scorrendo l'indice degli argomenti, troviamo il "mancato scoop" di Sharo Gambino cui lei sembra dare una certa importanza: ce ne vuol parlare?
Il 13 Luglio 1962 Sharo Gambino, corrispondente dalla Calabria per Il Tempo di Roma, pubblicò un lungo articolo in odore di scoop (Dopo aver visto gli orrori di Hiroshima un sergente americano si è fatto frate): chiacchierando con don Salvatore, sacrista della Certosa di Serra San Bruno, aveva saputo che all'interno dell'eremo, immersi tra le aghifoglie, i faggi e le querce secolari, vivevano un soldato americano, ex marine, reduce della guerra di Corea e un monaco “capace di risolvere in pochissimo tempo i calcoli più complicatissimi”. Si trattava di Majorana? E chi era quel soldato? La notizia fece molto scalpore: la redazione del settimanale Oggi inviò sul posto un cronista che, raccogliendo un po' alla rinfusa informazioni sui due monaci, indicò nell’ex marine il soldato dell’Enola Gay che aveva sganciato l'atomica su Hiroshima e Nagasaki. Peccato, però, che la notizia fosse falsa. Quando nel 1975 Sciascia pubblicò il suo romanzo, Gambino tornò all’attacco, fornendo a giornali e case editrici ogni documentazione in suo possesso per fare luce su quella vicenda. Ma tutto fu vano: “Un giallo è un giallo”, scriverà più tardi Gambino, “e tale deve continuare a essere se si tratta di un successo letterario, reca una prestigiosa firma e ci sono migliaia di copie da vendere”.
Le opere di William Faulkner (1897-1962) assomigliano a “torrenti in piena” che si muovono di continuo, senza posa, tra i luoghi dell’immaginazione: la sua è una letteratura “barocca” (Emilio Tadini) per le sovrabbondanze strutturali e sintattiche di cui sono colme le pagine dei suoi romanzi. Ma questo non ha impedito ai registi e agli sceneggiatori di Hollywood di trasformare le trame di opere come “The Sound on the Fury” e “As I Lay Dying” in pellicole cinematografiche, tra adattamenti, rivisitazioni e trasposizioni. Per comprendere il nesso tra Faulkner e il grande schermo è fondamentale, sottolinea Beatrice Melodia Festa autrice del recente William Faulkner sul grande schermo, iniziare proprio dallo stile di questo grande, indimenticato autore insignito nel 1949 del Premio Nobel.
Partirei, se lei è d’accordo, da una considerazione di carattere generale: come definirebbe il rapporto tra Hollywood e il romanzo americano e come è cambiato nel corso del tempo?
È un rapporto complesso. Come scrivo nel volume, il romanzo americano ha rappresentato e, per certi versi rappresenta ancora oggi, una fonte di ispirazione molto importante per il cinema, ma con delle differenze sostanziali: fino agli Anni Cinquanta gli sceneggiatori hollywoodiani “maneggiavano” con un certo rispetto l’opera letteraria, sviluppando una trama che fosse quanto più fedele possibile al testo originale. A partire dagli Anni Duemila, invece, si è registrata un’inversione di tendenza che piega, fino a stravolgerlo, il romanzo alle esigenze e ai ritmi della cinematografia.
William Faulkner è uno degli scrittori più amati ma allo stesso tempo più sofisticati e complessi della narrativa americana del Novecento: quanto è stato “tormentato” il processo di trasposizione cinematografica?
Moltissimo. E questo perché lo stile di Faulkner, tutt’altro che lineare, tutt’altro che semplice, tende per sua stessa natura a compromettere la fluidità della narrazione filmica: di conseguenza, adattare i suoi romanzi risulta estremamente complicato; non è un caso che il cinema abbia scelto di riadattare i primi romanzi, quelli della fase maggiore, soltanto a partire dagli Anni Cinquanta.
Nel caso di “The Sound on the Fury” e “As I Lay Dying”, le opere di cui parla più diffusamente nel suo volume, è più corretto parlare di parla di adattamenti, rivisitazioni o trasposizioni?
Sono termini cinematografici che rimandano a quel complesso e articolato processo di scambio che intercorre tra il romanzo e il film, quando il testo letterario viene riproposto in chiave audiovisiva. Il primo adattamento di “The Sound and the Fury” diretto da Martin Ritt (1959) fu duramente criticato per la consistente ed eccessiva rivisitazione del testo originale che, oltre a ridurre il romanzo all’ultimo capitolo, eliminava quasi completamente la complessità psicologica dei personaggi. Al contrario, il più recente adattamento di James Franco (2014) compie uno sforzo notevole optando per un uso della macchina da presa che si muove seguendo il tempo e il flusso di coscienza presenti nel romanzo e lo stesso accade in “As I Lay Dying” (2013). In questo caso, però, per tradurre la plurisoggettività dei personaggi Franco utilizza una straniante visuale multifocale che, se da un lato rispetta lo spirito dell’opera, dall’altro costringe lo spettatore a osservare il film attraverso il frazionamento dello schermo. In definitiva, sia il film di Ritt che quelli di Franco si possono definire adattamenti nel senso più ampio del termine, ma con una precisazione: nel caso di Ritt parlerei più correttamente di rivisitazione e di fedele trasposizione per i due film di Franco.
Proprio alla regia di James Franco è dedicato il quarto capitolo del suo lavoro: che giudizio ne dà?
I film diretti da Franco sono due progetti molto ambiziosi. Il lettore che ha una certa dimestichezza con l’opera di Faulkner ritrova in entrambi la sua complessità autoriale, ma, ripeto, lo sforzo visivo richiesto da Franco è tale da allontanare una buona fetta di pubblico: basti pensare che dopo le proiezioni ai Festival (tra cui quello di Cannes) nessuna delle due pellicole è stata tradotta o riproposta al di fuori degli Stati Uniti.
In entrambi i casi ritiene, da studiosa e da spettatrice, che il risultato finale abbia valorizzato i romanzi?
No, non parlerei di valorizzazione. Da spettatrice, credo che James Franco abbia avuto due grandi meriti: quello di aver trovato, unico tra i registi, un corrispettivo visivo alla sovrabbondanza stilistica di Faulkner; e quello di aver riportato, dopo più di mezzo secolo, l’opera di William Faulkner nelle sale cinematografiche americane. Da studiosa credo però che la forza creativa di Faulkner trovi la sua massima (e irripetibile) espressione nella pagina scritta.